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Enea e l’ignoto

“Stanno suonando le campane?” mi dice Arianna in collegamento Skype dalla Nuova Zelanda.


Abituata a quel suono impiego qualche minuto a realizzare che le campane della vicina chiesa stanno suonando: l’Ave Maria. Mi volto verso la finestra mentre la tenda si alza leggermente lasciando entrare la cultura mia e quella di Arianna assieme alla luce rosa del tramonto. Il cattolicesimo, lo strapotere della madre impersonato dalla Vergine Maria, le cinque del pomeriggio, la fine del lavoro, il dì di festa di leopardiana memoria entrano irruenti nella seduta psicoanalitica .
Mi volto verso il video e Arianna sospira: “Che malinconia!”.
Approfitto di questa casuale interruzione per lavorare assieme ad Arianna sul suo passato, su una madre troppo invasiva che l’ha costretta a scappare dalla realtà di un paese che ama e rimpiange, ma a cui non vorrebbe tornare.


Ma che cos’è la nostalgia?
La nostalgia è un sentimento che esprime insoddisfazione, tristezza, assenza di qualcosa che possedevamo e ora abbiamo perso. Le campane che suonano sono per Arianna il passato che bussa alla porta e che le riporta nella mente: sapori, canzoni o immagini che divengono stranianti e che la fanno sentire alienata dal mondo in cui sta vivendo.
Due sono gli stati d’animo che la malinconia porta con sé: tristezza per ciò che si è perso e estraneità dall’ambiente in cui si vive.
Arianna dice che lì a Auckland ogni cosa che osserva è come se la vedesse per la prima volta, nonostante ormai siano due anni che abita in quel paese. La ragazza ha difficoltà ad andare a lavorare e a uscire con gli amici perché non riesce a sentirsi integrata con quella realtà ma soprattutto sente intollerabile l’essere invisibile alle persone intorno a lei. Condizione a cui anelava quando era a casa, ma che ora sembra non farla esistere agli occhi del mondo.
Nell’ascoltare ciò che mi racconta Arianna mi viene in mente un’immagine. Otto anni fa quando iniziai il mio lavoro con gli expat, alcune assistenti sociali di Sydney mi chiesero di fare terapia a delle anziane italiane, immigrate di prima generazione.
In realtà era impossibile seguirle; parlavano solo il dialetto calabrese, abruzzese o siciliano e la loro dimestichezza con il computer era scarsa. Le assistenti sociali mi raccontarono che le signore vivevano un senso di straniamento, come se avessero smesso di impastare tagliatelle e ravioli in quel momento e si fossero all’improvviso accorte di essere in una realtà diversa dalle loro radici.
Queste donne avevano continuato a cucinare perpetuando così una vecchia abitudine, ma appena avevano alzato la testa dal tavolo pieno di farina si erano accorte di essere in un altro paese e che gli altri parlavano una lingua per loro incomprensibile.
Con l’abito lungo e nero e il viso triste queste italiane in terra d’altri si sentivano un oggetto estraneo a tutto ciò che le circondava.
Un oggetto bello, antico e prezioso ma completamente fuori contesto esattamente come certe opere artistiche di arte contemporanea.
Pochi giorni fa in Tuscia, precisamente a Soriano nel Cimino, ho superato spazio e tempo e sono entrata in un sogno. Nascosta nella foresta, entro le mura di una antica chiesa senza tetto, vi era l’unica barca di marmo esistente al mondo fuori dalla Cina.


La barca è la copia perfetta dell’originale, costruita nel 1895 per il sessantesimo compleanno dell’imperatrice Cixi e regalata dall’imperatore, nipote dell’imperatrice, ad un imprenditore italiano che operava in Cina. Questo pioniere l’ha poi trasportata nella sua tenuta sui Monti Cimini.
Il manufatto è di una bellezza sorprendente, ma che cosa ci fa lì, in un bosco Umbro? Bello e estraneo al contesto esattamente come le signore vestite di nero con le mani sporche di farina che si guardavano attorno in un mondo pieno di luci, computer e rumori assordanti.
Quella tomba/ barca di marmo mi è parsa il simbolo di quell’estraniamento dove passato e futuro si fondono e si ammutoliscono lasciandoti senza un luogo.

Ritratto di Cixi, Hubert Vos, 1906, Olio su tela, Fogg Art Museum, Harvard University. Foto: Akg / Album


Casa tua è lontana: è lì in Australia o in Italia? Non è da nessuna parte e la sensazione è quella di aver perso tutto. L’unica cosa che rimane è il traballante desiderio di essere che pare sparire in questo luogo non nostro e in questo tempo che si biforca e che lascia l’identità franta, divisa in due parti.


L’Io dov’è allora?
Nel passato o nel futuro?

Il nostro Io è nella capacità di tenere questi due poli uniti senza lasciarne andare nessuno, la malinconia va portata e il senso di estraniamento va tollerato. Ed è solo così che la malinconia da mancanza ed estraniamento si trasforma in presenza di persone, luoghi ed emozioni che tornano a trovarti.
Le signore della prima immigrazione australiana per non avvertire la malinconia l’avevano rimossa ma nel contempo stesso si erano dimenticate di vivere la realtà che abitavano.
Ricordo che pur non potendo far nulla per queste signore avevo consigliato alle assistenti sociali di promuovere per loro delle piccole attività che gli facessero percepire la realtà che vivevano; una passeggiata fuori dall’abitazione, due parole in inglese, farsi accompagnare a far la spesa in un mall.
Ma come si porta il conflitto tra malinconia e estraniamento e la voglia di rimanere in quel posto estraneo che si è scelto?
Le immagini come sempre sciolgono il nodo del conflitto e fanno intuire la risoluzione. Nella mia città a Genova, nel bel mezzo di Piazza Bandiera, in zona della Nunziata, si trova una scultura che celebra uno dei momenti più alti della cultura occidentale: la commovente scena in cui Enea, che ha perso tutto ed è costretto ad abbandonare la città di Troia in fiamme, spinge avanti a sè il figlio Ascanio e porta sulle spalle il vecchio padre Anchise.

Enea che in spalla un passato che crolla tenta invano di porre in salvo, e al rullo di un tamburo ch’è uno schianto di mura, per la mano ha ancora così gracile un futuroda non reggersi ritto.

Il passaggio di Enea, Giorgio Caproni.
Fuga di Enea da Troia, Federico Barocci, 1598, Galleria Borghese, Roma



Ho già parlato della nostalgia di Ulisse per Itaca e per il suo letto costruito dentro ad un albero con radici profonde nella terra e l’ho equiparato al sentimento della mancanza da casa degli expat.
Ulisse, però, è tornato a casa, è stato riconosciuto dal suo cane e ha potuto riabbracciare la moglie.
Ma che cosa succede a chi a casa non vuole o non può tornare?.
Enea è l’eroe di chi sceglie di affidarsi al “destino”, al fato, alle parche. E’ a lui che tocca di farsi “pio” cioè obbediente al volere degli dei .
Egli, infatti, non tornerà in patria, asseconderà il suo destino e fonderà una nuova città che diventerà poi Roma Caput Mundi.
Ulisse e Enea due personaggi e due stati d’animo diversi.
I Greci credevano di essere nati dalla terra, come l’albero in cui era intagliato il letto di Ulisse.
Gli Ateniesi si vantavano di esserci sempre stati. Il loro primo re era sbucato dal suolo come un serpente e per questo aveva la parte inferiore del corpo coperta di scaglie.
“Noi siamo stati sempre qui”, dicevano “La nostra gente è nata da questa terra; possiamo accogliere i supplici e gli stranieri, anzi è la nostra legge a imporlo, ma i veri Ateniesi saremo sempre noi, i figli del serpente”.
I Romani, invece, sapevano di discendere da uno che viene da fuori, accompagnato da fuggiaschi che avevano attraversato il mare rischiando di morire e scomparire nelle acque.

Seneca, scrive: “L’impero romano ha come fondatore un esule, un profugo che aveva perso la patria e si portava dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una terra lontana…” .

Ma malgrado tutto, al di là di tutto, i superstiti con dolore affrontando l’ignoto trovarono una terra dove stanziarsi, e con gli antichi abitanti di questa formano un unico popolo

Andare verso l’ignoto vuol però dire non aspettarsi un porto sicuro e la sicurezza la ricaviamo solo dal poter portare il passato sulle spalle, spingendo avanti il futuro.
D’altra parte Enea era un eroe / non eroe, persona “normale” ma figlio di una dea; Venere, quindi “fortunato” e “destinato”.
Ma questa è un’altra storia.

La vocazione

La spiaggia si era spopolata, il mare srotolava pietroline sulla battigia e gli ombrelloni proiettavano un’ombra lunga sulla sabbia ancora calda. Da un juke box arrivava la voce ambigua di David Bowie.

Ground Control to Major Tom
Ground Control to Major Tom
Take your protein pills and put your helmet on

Un ragazzo arruffato con un paio di occhialini rotondi leggeva appoggiato ad uno scoglio, vicino a lui una ragazza che per contrasto appariva liscia e in ordine; lisci i capelli neri e lunghi, liscia la fronte, seppur tesa nella lettura.
Ad un tratto Il giovane chiuse il libro di botto e si rivolse alla ragazza: “Ma tu ci credi ai marziani?” le chiese.
“Un po’.” disse lei muovendo l’aria con la mano nel tentativo di azzittirlo.. ”Lasciami leggere, sto arrivando alla fine .”
Lui le lanciò una manciata di sassolini e bofonchiò: “Guarda che il libro è il mio…”

This is Ground Control to Major Tom
You’ve really made the grade
And the papers want to know whose shirts you wear
Now it’s time to leave the capsule if you dare

“Finisce che non tornerà più sulla terra…” disse il ragazzo alzandosi di scatto: “ Dobbiamo andare.”
“Ma sei stronzo…mi hai detto come finisce.” Disse la giovane mettendosi in ginocchio ma continuando a tenere in mano il libro poggiato sui suoi palmi come per l’offerta ad un dio.
Il ragazzo con gli occhi crudeli chiusi a fessura le sibilò: “Si, lui resterà nello spazio.”
Lei imbronciata si alzò di scatto, sventolò l’asciugamano sollevando polvere e ira e lo ficcò nella borsa.
“Guarda.” Disse lui prendendo il libro: “Non ti ho detto come finisce. La fine sta già scritta nella quarta di copertina. Leggi qua…c’è anche il commento di un…di un…dammi il libro che te lo dico…”
Con un gesto rapido afferro il libro e si mise a leggere:.“Uno psicoanalista…Carl Gustav Jung”
Lei imbronciata allargò le braccia e rispose: “ Non so chi sia.”
“Carl Gustav Jung.” Disse lui esibendo finta supponenza e arroganza.
Qualcuno doveva aver rimesso lo stesso disco e David Bowie cantava il viso imbronciato di lei si ammorbidì nel rosa del tramonto e sorrise.
“Va beh, va beh. Finiamola qui..” Aggiunse.

“This is Major Tom to Ground Control
I’m stepping through the door
And I’m floating in a most peculiar way
And the stars look very different today

“Ho una cosa da dirti…” sospirò lei dopo qualche secondo di silenzio.
“Cosa?” Fece lui
“Era qualcosa su…No, niente. mi sembrava importante, ma l’ho scordata.”
Il ragazzo scosse la testa. Era abituato alla distrazione di questa ragazza che viveva con la testa dentro alle storie che leggeva.
Più tardi quando l’accompagnò alla stazione lui andò a comperarle il biglietto. Lei ingannò il tempo sbirciando dentro ad un giornalaio. In un angolo c’erano riviste pornografiche, un po’ più in là Due più, Bolero e Grand Hotel. Vicino al muro alcuni libri. Il giornalaio aveva denti sporgenti e occhi rotondi; sembrava un castoro.
Lei si avvicinò ai libri.
Ne prese uno a caso.
Si intitolava Fenomeni paranormali.
Alla ragazza piaceva quella copertina essenziale; tutta nera, con un cerchio nel mezzo.
Prese il libro e lo porse al giornalaio. Mentre aprì la borsa pensò tra sé e sé che non aveva mai visto un individuo con denti così sporgenti.
Quando lui ritornò dalla biglietteria l’abbracciò. Lei annusò il suo odore aspro e forte.
Sarebbero stati un bel po’ senza vedersi.
Lui le prese il libro dalle mani.“Fenomeni paranormali di Carl Gustav Jung.” lesse.
“Ah si?” Disse lei.
“Sapevi che era lui…quello del libro…lo psi…lo…?” Fece lui.
“ Si, certo ”rispose lei rovistando in borsa.
“Davvero?” Replicò lui.
“Certo” rispose chiedendosi dove mai avesse ficcato il biglietto appena ricevuto.
Lui canticchiò il ritornello della canzone appena ascoltata.
Can you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major Tom?
“ Torre di controllo…Comandante Tom risponda” insistette lui agitandole una mano davanti al viso.
Lei gli rispose canticchiando a sua volta: “Here am I floating ‘round my tin can
Far above the moon
Planet Earth is blue
And there’s nothing I can do”

Earls Court Arena on May 12, 1973 during the Ziggy Stardust tour (Photo by Gijsbert Hanekroot/Redferns/Getty Images)

Quell’evento, alla ragazza, fu chiaro molti anni dopo e solo perché aveva buona memoria ed era andata frugando per tutta la vita, per via del suo lavoro di psicoanalista, in ogni episodio della sua esistenza.
Quel pomeriggio d’estate un impalpabile evento sincronico aveva acceso la luce sul suo destino. Ma non crediate che la ragazza sia stata abile a coglierlo. Ah no, ci sono voluti ancora anni ed anni prima che seguisse quella che era a tutti gli effetti la sua vocazione.
Ma cos’è la vocazione?
Le teorie sulla vita sono tante ma l’esistenza spesso ci sfugge di mano perché essa è di più, molto di più di quanto la nostra ragione possa comprendere. Per esempio: avete mai avuto la sensazione che ad un tratto qualcosa vi chiamasse a percorrere una certa strada?
Certo che l’avete avuta.
In un momento preciso dell’infanzia o anche dopo in adolescenza è avvenuto qualcosa che poteva essere: un bisogno pressante e improvviso, una fascinazione, un curioso insieme di circostanze o un evento sincronico simile a quello che vi ho raccontato.
Il giorno in cui questo evento è avvenuto siete stati colpiti con la forza di un’annunciazione? Avete detto: “Ecco quello che devo fare, ecco quello che devo avere? Ecco chi sono?”.
Ma a volte, come accade alla ragazza della storia la chiamata avrebbe anche potuto essere meno netta, più simile a piccole spinte verso un determinato approdo, mentre vi lasciavate galleggiare nella corrente pensando ad altro.
Però sia che abbiate avuto la chiamata, oppure sensazioni fragili è raro che vi abbiate dato ascolto, perché subito vi siete detti che è roba da bambini.


“Chi mi credo di essere?” Un eroe ? Una eroina? Ma io non ho nessun talento.” Ma io non sono capace a far nulla.” E la chiamata va perduta nelle incombenze pratiche della vita di tutti i giorni. “Non possiamo mica perderci nei segnali premonitori o nei sogni.” ci siamo detti e abbiamo proseguito con lucidità e razionalità.
Eh no, quella chiamata avremmo dovuto ascoltarla.
Essa è ciò che conta davvero.
E’ la vocazione la spinta motivazionale più forte per ogni essere umano. La chiamata non significa essere destinati a salvare il mondo o a fare qualcosa di eccezionale, ma è solo la nostra vocazione ciò che può permetterci di fare delle scelte libere sulla base di una sensazione che è possibile sviluppare.


Scrive Hillman:
Perché è questo che in tante vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi. Non la ragione per cui vivere; non il significato della vita in generale, o la filosofia di un credo religioso: questo libro non ha la pretesa di fornire risposte del genere. Esso vuole rivolgersi piuttosto alla sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere; la sensazione che il mondo, in qualche modo, vuole che io esista, la sensazione che ciascuno è responsabile di fronte a un’immagine.
Hillman, James. Il codice dell’anima


Allora voi vi direte: “Si, ma, allora questa vocazione bisogna avere orecchio per sentirla?e io non sono portato; bisogna capire tra le righe, vedere ciò che non si vede, tutto troppo difficile per me.”
Come psicoanalista vi posso dire che è difficile ma che si può fare. La nostra vocazione lascia tracce leggere come quelle di un passerotto ma lavorando sui sogni, le sensazioni, le angosce, le paure e, anche tra le vigliaccate ad un certo punto la vocazione arriva come in un sogno da svegli.


“Io sono venuto ma voi non mi avete visto.” Disse Gesù quindi meglio stare attenti a tutto ciò che si manifesta perché potremmo non vedere ciò che potrebbe causare la trasformazione.
Vi assicuro che in questo caos in cui viviamo si diffondono in tutte le direzioni tracce di significato, reti di una logica strana; se si crede in Dio, queste sono le impronte indirette del suo dito altrimenti sono il senso del vivere.

Se la vita ha una base su cui poggia … allora la mia senza dubbio poggia su questo ricordo. Quello di giacere mezzo addormentata, mezzo sveglia, sul letto nella stanza dei bambini a St. Ives. Di udire le onde frangersi, uno, due, uno, due … dietro la tenda gialla. Di udire la tenda strascicare la sua piccola nappa a forma di ghianda sul pavimento quando il vento la muove. E di stare sdraiata e udire gli spruzzi e vedere questa luce e pensare: sembra impossibile che io sia qui…
VIRGINIA WOOLF, «Immagini del passato»

Lascio tutto e vado al mare

Nella mia stanza di ritiro sono solo con me stesso. Ne ho sempre la chiave, e nessuno può entrarci se non col mio permesso.

Jung, Carl Gustav. Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli Edition.

Tutto è accaduto in città.
Le corti, le signorie, la cultura, gli artisti, gli scrittori, i poeti.
Nelle città si è cambiato il modo di rappresentare il mondo ma è stato solo con la scoperta di nuove terre che lo spazio è diventato tridimensionale e si è aperto alla prospettiva. Atene, Costantinopoli, Antiochia, Parigi, Londra e le città italiane hanno fatto la storia e hanno raccolto al loro interno capolavori di cultura e teorie rivoluzionarie.
Eh si, le strade delle città conducono al centro e là in quel nucleo pare esserci la realizzazione di ogni cosa. Parrebbe che una volta arrivati lì al cuore di quel mandala si possa trovare il senso del nostro cammino e finalmente fermarci.
“Andiamo in centro.” diciamo ancora in quei Sabati o Domeniche noiose. Dove l’andare in centro diventa la possibilità di fare qualcosa, di vedere novità e comperare oggetti, spesso inutili.
Un tempo in città vi si trovavano giullari, venditori e mangiatori di fuoco, ora invece vi troviamo negozi, librerie, biblioteche, tutto ciò che è cultura e che risponde alla legge del dominio dell’uomo su ciò che è naturale.
In città la natura è finalmente vinta: fibre naturali son diventate tessuti, la frutta è disposta ordinatamente in fila, gli alberi, curati da giardinieri, si muovono al venticello prodotto dallo scorrere del traffico.
Ma da un paio di anni, raggiungendo il suo picco nel periodo post covid, la città va stretta e si parla di andar via, di ritornare nella casa dei nonni, oppure parliamo di scappare nella grandi campagne del mondo che sono: l’Australia o la Nuova Zelanda.
Nella serie tv Yellowstone il protagonista John Dutton interpretato da Kevin Costner cerca di proteggere il proprio ranch, il più grande degli Stati Uniti, dagli speculatori edilizi a caccia di terreni, dagli abitanti di una riserva indiana e dalla vicinanza del primo parco nazionale d’America.
Proprio all’inizio due protagonisti hanno questo dialogo:
“Qui mi sento diverso.” dice uno dei protagonisti guardando la terra sconfinata che si apre davanti a lui “Ho come dei brividi non mi ero mai sentito così sino ad ora.”
“E’ perché vivi in città.” risponde l’altro con gli occhi persi nel panorama. “Le città rappresentano il tramonto della civiltà. Un monumento a un paesaggio ormai stremato. Gli uomini sono migratori per natura. Ciò che ora senti è l’istinto. E’ fame di nuove terre intessuta nel tuo DNA. E’ per questo che la nostra specie sopravvive mentre le altre si estinguono.”


Ma cos’è che in questi anni ci spinge a fuggire? Cos’è che ci opprime in queste città brillanti come carta di cioccolatino?
Una ipotesi, ma non certa l’unica, è che in città il collettivo soffoca la nostra individualità.
Che cosa non è una coda in macchina se non l’attesa di poter riprendere il cammino una volta liberata la strada dagli altri viaggiatori, e cosa non è la lettura del giornale se non la denuncia di chi non tiene comportamenti socialmente ammissibili, che cosa non è il semaforo rosso se non un piccolo stop al nostro normale procedere.
Jung scrive:

Maggiore è la carica della coscienza collettiva, più l’Iо perde la sua importanza pratica. Esso viene in certo qual modo assorbito dalle opinioni e dalle tendenze della coscienza collettiva: il risultato è l’uomo massa, sempre vittima di un qualche “ismo”.

Jung, Carl Gustav. Opere complete

Rispettare la collettività è cosa buona e giusta e Yellowstone è una serie tv girata nel Montana laddove si ci fa ancora giustizia da soli come ai tempi della conquista del West. Però se è vero che l’uomo è un animale sociale è anche vero che è necessario individuarsi come persona, trovare la propria strada al di là di ciò che compie la massa.

Sempre Jung scrive:
L’Io conserva la sua autonomia soltanto se non s’identifica con uno dei termini opposti, se sa mantenere una posizione equidistante tra gli estremi.

Andare a vivere al mare o sull’isola deserta o in una casa isolata in montagna forse, allora, è simbolo del nostro desiderio di individuazione in antitesi alla massificazione e ha il significato della ricerca di un centro interiore che nulla ha a che vedere con ciò che la società ci chiede di essere.
Inoltre è probabile che davanti al vuoto dei campi o persi nella visione della via Lattea possa essere più facile intravedere il proprio destino.
Proprio Jung intorno al 1930 si costruì una casa in pietra lontana dal chiasso della città.

“Fin dal principio tenni per fermo che avrei costruito vicino, all’ acqua. Ero sempre stato particolarmente attratto dall’incantevole scenario della parte superiore del lago di Zurigo, e così nel 1922 acquistai il terreno a Bollingen. È situato nel contado di San Meinrad, ed è vecchia terra consacrata, essendo appartenuta in passato al monastero di San Gallo. Dapprima non progettai una casa vera e propria, ma solo una specie di dimora primitiva, a un solo piano. Doveva essere una costruzione rotonda, con un focolare al centro e cuccette lungo le pareti. Più o meno avevo in mente una capanna africana, dove il fuoco, circondato da pochi sassi, arde nel mezzo, e tutta la vita della famiglia si svolge intorno a questo centro.

Jung, Carl Gustav. Ricordi, sogni, riflessioni, Rizzoli Edition.

Il desiderio di andar via è anche un ritiro dentro se stessi abbandonando il mondo e le sue luci tentatrici per ritirarsi nel cantuccio della riflessione e dell’immaginazione.
Allora dove è possibile essere se stessi? In città rischiamo di perderci girando ininterrottamente sul raccordo anulare cercando quel centro pieno di promesse ma difficile da raggiungere. Lontani dalla città rischiamo l’autarchia fino al punto di immaginarci senza uno Stato e pronti a farci giustizia da soli.
La risposta è facile da scrivere ma difficile da fare, il centro occorre cercarlo dentro se stessi continuando ad oscillare tra natura/campagna e cultura/città.

In questo articolo la Dott.ssa Brambilla cita Ricordi, sogni, riflessioni di Carl Gust Jung oltre la serie tv Yellowstone.

Questo libro raccoglie la sostanza spirituale di un grande maestro della psicologia. Un’autobiografia che attraversa le zone più private e inaccessibili dell’animo umano.

Comunque per ritornare alla normalità bisogna essere stati normali

L’accelerazione del cambiamento è la cifra della nostra epoca.
Sui mezzi pubblici, al bar o in spiaggia si sente sempre qualcuno che scuotendo la testa e per niente entusiasta esclama: “E’ in atto una rivoluzione, cambierà tutto”
Il cambiamento attrae ma contemporaneamente respinge. Tutti ci auspichiamo di cambiare ed è spesso anche una richiesta che facciamo nel lavoro psicoanalitico: “Non mi vado bene come sono. Vorrei cambiare.”
In realtà, forse, non occorre agitarsi perché tanto i cambiamenti avvengono da soli.
Tutto ciò con cui veniamo a contatto è soggetto a mutamenti continui. Già nei secolo antichi si era consapevoli di ciò: Eraclito descrive il mondo come un flusso perenne in cui tutto scorre. Egli afferma che come le acque di un fiume: non ci si può mai bagnare due volte nella stessa acqua.
Nevrotico è, se proprio dobbiamo dirlo opporsi al cambiamento. E lì, bisogna dire, che noi essere umani per rimanere avvolti nella nostra zona di confort le studiamo tutte e, a volte, ci troviamo ormai vecchi aggrappati al fanciullo che eravamo.
Canta Battiato:


“Ma c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare
Senza diventare adulti.”


Cambiare, quindi, è necessario ma in questi ultimi anni non si è andati troppo veloci? Tutto ci appare vecchio ma il nuovo dov’è?
Eh si, ce ne accorgiamo tutti i giorni, tutto è diventato più vecchio, antico. Non lo avevamo visto prima ma le poltroncine del treno sono tutte corrose, il selciato in alcuni punti è divelto, nelle vetrine dei negozi gli oggetti sembrano appoggiati male e hanno colori spenti e polverosi, come se fossero stati tirati fuori dalla soffitta in attesa che arrivino le tute spaziali. Persino il sole sembra non essere più lo stesso; è più accecante, e illumina aggressivamente le cose ormai polverose.
Ci sarebbe da chiedersi se, forse, l’aver guardato la vita da uno schermo di computer luccicante di pixel ci fa vedere il reale più impolverato più scialbo e soggetto alla precarietà dell’esistente.
Fatto sta che ora che siamo tornati alla vita di prima e tutto ci appare come se fosse passato un tempo molto più lungo di quanto in realtà è stato.


Scrive Barrico:
Cinque anni in uno.
Come in un racconto di Philip K. Dick, s’è formata una crepa temporale e lì dentro abbiamo vissuto cinque anni in uno.

Dunque, vorrei avvertirvi, siamo nel 2025.
Eh si, è proprio così, siamo piombati nel 2025 con i mezzi che avevamo nel 2020. Mentre noi impastavamo con il lievito madre non ci accorgevamo di usare i device digitali molto di più di quanto li usassimo prima; abbiamo lavorato in smart working, fatto la spesa on line e siamo finiti a far lezioni di tedesco o di yoga su un’app.


Sempre Barrico scrive:
Sarò sintetico: siamo finiti, in un anno, nel 2025, e purtroppo l’abbiamo fatto in modo disordinato e caotico, lasciandoci dei pezzi indietro. Dunque c’è una specie di linea temporale da ricomporre, allineandola più presto possibile al 2025: chi ci riesce per primo, vince. Chi non vede il problema è destinato alla scomparsa. Chi lo vede e sa gestirlo erediterà la Terra.
Oddio, però non può andare tutto così veloce.
Forse anche se vedo il problema ho bisogno di narrarla questa nuova vita; di raccontarla alla luce dei nuovi valori acquisiti e dei vecchi pregiudizi persi.
Intanto incominciamo a dargli un nome a tutto quanto sta accadendo perché solo così è possibile pensarlo e eventualmente dirigerlo.
Quest’ultima rivoluzione dell’umanità si chiama: rivoluzione digitale.
Ci hanno preceduti molteplici rivoluzioni ma questa a differenza delle altre non ha un libro, non ha un progetto e si compie a partire da una serie di azioni pratiche che si susseguono.
Le nostre società sono attraversate da cambiamenti profondi indotti dalle innovazioni in campo scientifico verificatesi grazie alla rivoluzione tecnologica.


Materie come le nanotecnologie, le biotecnologie le neuro scienze, l’esplorazione dello spazio e lo studio delle particelle della materia stanno rapidamente spingendoci verso il futuro lasciando nella polvere tutto ciò che c’era prima.
Ma se questa rivoluzione digitale non poggia su nessuna teoria come farà l’umanità a stare al passo?
C’è chi incespica e cade, c’è chi affannosamente cerca di rimanere connesso non lasciando andare i vecchi pregiudizi, c’è chi già rimpiange il mondo di prima e si dibatte nel vecchiume, c’è chi non vede più un futuro.
L’innovazione, in realtà, non è un’attività neutra ma rispecchia i valori, le idee e le conoscenze di chi la dirige.
Un esempio tra i tanti che potrei fare: la disponibilità di un gran numero di dati dà alle macchine la possibilità di creare degli insiemi in cui suddividerli, dando vita a una differenziazione sempre più sofisticata.
In questo il machine Learning della macchina è simile all’apprendimento umano perchè crea delle distinzioni concettuali e le generalizza in base all’esperienza. Il processo di machine Learning dipende dai dati che gli vengono forniti. Se i dati sono viziati da pregiudizi umani la macchina non potrà che replicare quei modi di pensare nei suoi risultati.
Il caso più eclatante degli ultimi anni è stato quello del programma “Compass”; un’intelligenza artificiale usata dai giudici americani per valutare il rischio di recidiva dei condannati. Grazie a un’inchiesta giornalistica si è scoperto che il sistema perpetuava un pregiudizio nei confronti dei detenuti afroamericani, considerati ingiustamente più inclini alla recidiva. Questo effetto era causato dai dati con i quali era stato nutrito il suo machine Learning, dati che rispecchiavano l’idea di una maggiore pericolosità dei detenuti afroamericani, che costituiscono il 40% della popolazione carceraria nonostante rappresentino solo il 13% della popolazione statunitense totale.
Un tempo si considerava la terra al centro dell’universo ed era un pregiudizio dettato dall’arroganza dell’uomo.
Il passaggio dal paradigma tolemaico a quello copernicano ha prodotto un cambiamento epocale ma allora l’uomo procedeva con lentezza e riuscì a stare al passo con il cambiamento raccontando nuove storie che escludevano la terra dal centro dell’universo. Più grande ancora fu il cambiamento quando l’umanità si accorse che il sole non era al centro di nulla e l’universo era più grande di quanto l’uomo possa tuttora immaginare, ma anche allora la narrazione cambiò con lentezza scivolando lentamente nelle scuole, tra i filosofi, tra gli studiosi.
Ad oggi la spinta verso lo spazio è troppo forte, chi ci riflette non fa in tempo ad elaborare una teoria che questa è già sorpassata.
Vien voglia di dire: “Fermate il mondo voglio scendere.”
Cambiare, migliorare il mondo evolvere è ciò che ci auguriamo tutti ma tutto questo va pensato profondamente altrimenti invece che un’opera creativa degli uomini questa trasformazione sarà una storia che trasformerà gli umani in qualcosa che non è detto che essi vogliono diventare.
Abbiamo scoperto che i pianeti non girano attorno a noi, abbiamo capito che siamo un granello di polvere nello spazio e sono state tutte bastonate per il nostro “Io” perché non eravamo normali nemmeno prima.
E ora? Stiamo correndo il rischio di non apprendere dall’esperienza e sentirci nuovamente divinità al centro del mondo.
Una riflessione è necessaria.

Ulisse il covid è finito, gli dei mi lasciano tornare

O donna, chi dunque ha spostato il mio letto?”

OMERO, Odissea

Nell’ Odissea dopo dieci anni tutti gli eroi sopravvissuti sono tornati a casa, solo Ulisse vaga senza poter rientrare in patria.

 Il suo ritorno è ostacolato dagli dei.

Nettuno, infuriato con lui per l’uccisione di Polifemo,  gli invia ondate di tempesta e cavalloni altissimi.

Allora tutti gli altri, quando evitarono l’abisso e la morte, erano a casa, scampati dalla guerra e dal mare; lui solo, che sospirava il ritorno e la sposa, la veneranda ninfa Calipso, la splendida dea, tratteneva negli antri profondi, volendo che le fosse marito.”(I,11-15)

“Sono bloccata in Australia dal covid, non posso tornare in Italia altrimenti non mi sarebbe permesso di ritornare qui. Che nostalgia!”

Come novelli “Ulisse” agli italiani all’estero a cui viene impedito il ritorno avvertono la mancanza di casa.

La nostalgia  si attiva per un nonnulla, fa sentire le ossa molli e la testa piena di una marea tiepida di ricordi; è sofferenza dovuta alla lontananza ma è anche, e questo tendiamo a dimenticarlo, il dolore del ritorno e le pene patite per ritornare.

I Nostoi sono un  poema, incentrato sul tema letterario del ritorno dei Greci in patria dopo la distruzione di Troia.

Il poema per antonomasia del ritorno è l’Odissea.

 Nel poema è proprio la nostalgia ciò che fa preferire ad Ulisse il ritorno, nonostante egli sia consapevole che a casa  troverà il tempo che passa, la morte e, ancora peggio, la vecchiaia invece che l’immortalità.

Ma il ritorno è ostacolato da mille impedimenti. A volte sono gli accadimenti esterni che gli impediscono di ritornare, altre volte è qualcosa dentro che si addormenta nel tran tran quotidiano fra le morbide braccia di seduttrici regine semi divine.

Già una prima volta Ulisse era arrivato in prossimità di Itaca; Eolo il dio dei Venti gli aveva assicurato il ritorno facendo soffiare l’alito dello Zefiro e rinchiudendo i venti rombanti in un otre che gli aveva affidato. “Allora” racconta Ulisse “ il sonno soave mi prese, ch’ero sfinito; continuamente alla barra ero stato, senza darla a nessuno dei miei compagni, perché più presto arrivassimo in patria.” Ulisse si addormenta e l’otre viene aperto: i venti si scatenano.

 Bisogna ricominciare tutto da capo.

Quando Ulisse vede Itaca dal mare, la riconosce, ma il sonno gliela fa di nuovo perdere e per otto anni inizia un’Odissea. i Lestrigoni, Circe, gli Inferi, le Sirene, Scilla e Cariddi, l’isola del Sole, Calipso.

Il covid o altri impedimenti congiurano a non far rientrare gli expat, moderni “Ulisse” dei nostri tempi. E come per l’eroe anche per gli expat gli impedimenti sono dati dalla realtà esterna ma anche da propri conflitti interni. 

Come per l’eroe anche gli expat si “addormentano” aspettando un visto o un riconoscimento lavorativo, un amore che non si riesce a concretizzare e il covid diventa una scusa per procrastinare.

Addormentati tra le braccia di dee semi divine?

Ma, poi, con un colpo di reni e l’aiuto di un dio si riesce sempre a tornare anche se il ritorno non è mai quello che ci si aspettava.

Kant affermava che il nostalgico è sempre deluso perché non è il luogo della giovinezza che vuole ritrovare ma la giovinezza stessa e quella non la si ritroverà più.

 Quando Ulisse addormentato vieni depositato dai Feaci sulla spiaggia di Itaca lui  non la riconoscerà.

E intanto si svegliava Odisseo luminoso, addormentato sopra la terra dei padri; e non la conobbe, da tanto ne era lontano: e poi nebbia gli versò intorno la dea, Pallade Atena, figlia di Zeus, per renderlo irriconoscibile.” (XIII, 187-191).

Finalmente Ulisse è arrivato ma in realtà sembra non esserci. L’isola pare avere un’altra forma, tutto è estraneo,  e la sua patria si trasforma in un luogo angosciante.

Eh si, il ritorno a casa è un po’ un paradosso; tutto appare a volte più piccolo a volte più grande di come si ricordava, il pavimento sembra più lucido, tutto è familiare ma anche no.

Freud sostiene che: “Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.”

A completare il tutto, bisogna dire che la nostalgia stende uno strato di vernice luccicante su un legno corroso dai tarli e appena si intravede il legno sgretolato torna anche la voglia di ripartire.

“Ma come? se avevo tanta voglia di tornare.”

A questo punto per esprimere questa contraddizione citerei un passo di un libro scritto da Miller Madeline: Circe.

Il suo romanzo non è un saggio scientifico  ma poggia sulle solide basi di una conoscenza approfondita delle fonti e dei testi.

L’autrice racconta la vita di Ulisse vista dagli occhi degli altri; prima di Circe e poi dal figlio Telemaco.

Quando l’eroe è volontariamente incatenato dall’amore per la semi dea rimpiange Itaca:

«Di questo io ho sognato» disse lui. «Di campi dorati che si estendono, sconfinati, fino all’orizzonte. Di frutteti, di fiumi luccicanti, di floride greggi. Mi ero convinto che era Itaca che vedevo

Ma dopo anni dal suo ritorno a Itaca, Telemaco descrive così la difficile permanenza a casa di Ulisse.

Era stufo di vivere fra le ceneri, disse. Partì a bordo di una scialuppa e tornò un mese dopo con cinture e coppe d’oro e un nuovo pettorale, e spruzzi di sangue secco sui vestiti. Non l’avevo mai visto più felice. Ma durò poco. Al mattino stava già imprecando contro il salone pieno di fumo e la goffaggine dei servitori.»

Eh si, tornare o rimanere è una scelta difficile e piena di aspettative che non sono mai soddisfatte.

Se si torna a casa tutto non è come ce lo aspettavamo se si rimane la nostalgia ci tiene in scacco.

Ma questo in fondo è il destino dell’uomo sempre in attesa di un altrove che lo soddisferà completamente e mai sazio del luogo che ha conquistato e delle esperienze che ha compiuto.

Scoccare una freccia a favore di Tinder

Il carnato del cielo sveglia oasi al nomade d’amore.

Giuseppe Ungaretti

L’ho incontrato su Tinder “ mi dice Chiara guardandomi di sottecchi come chi rivela una debolezza, una falla della personalità.

Ma perché vergognarsi di cercare relazioni su un sito? Perché pensare che Tinder sia uno stratagemma narcisistico?

In un mondo che sta cambiando Tinder è uno strumento e solo il modo in cui viene utilizzato  può renderlo negativo. Se diventa, però, un’ossessione o un data base su cui archiviare più incontri possibili, allora, può essere un problema, ma, in realtà, le frecce di Cupido hanno sempre bisogno di una direzione e un sito d’incontri può dargliela. 

Inoltre, se ben usato Tinder è anche un mezzo per raccontare se stessi ed ascoltare il racconto di un altro che non è noi ma qualcuno che a noi assomiglia. L’incontro è una pagina bianca su cui scrivere ciò che vogliamo e se la chat dell’app è un foglio non scritto proviamo, allora, a vederlo come un libro che si srotola da solo, mano a mano che iniziamo a scrivere.

Intanto c’è l’incipit.

Si, certo l’incipit è sempre frustante: “Come stai?” “ Cosa fai?”. A dire il vero, però, negli incontri face to face: “Bella giornata oggi.” non è che sia poi molto più interessante.

Cechov disse che se uno scrittore nell’incipit di un suo libro parla di un fucile; questo fucile prima o poi  deve sparare. Ecco andare a caccia di quel fucile potrebbe rendere interessante una conversazione che muore e sta per esalare l’ultimo respiro. In fondo in tutte quelle frasi banali e stereotipate si cela un’unica domanda: “Chi sei?”

Ed è quel “Chi siamo?” Che come il fucile di Cechov prima o poi deve sparare.

“Oddio! Se neanche lo so chi sono veramente?”

Ecco questo è un buon momento per iniziare a conoscersi. Un mio paziente mi disse un giorno che descriversi su Tinder era come definire se stessi davanti ad un pubblico non pagante.

La regola, però, è che nessuno menta: né con foto dove si è riusciti benissimo, né con pregi che non si possiedono, né con abilità che non si hanno.

 Si inizia a raccontare e  poi si vedrà.

In questo modo mano a mano che andiamo in scena, si snocciola la trama.

Incominciamo da una frase e da una immagine che ci coinvolge, facciamo domande e rispondiamo a domande e piano, piano andiamo vincendo la paura. In punta di piedi tra le maglie della trama appariranno i fallimenti  (“I fallimenti che per tua natura normalmente attirerai” canta Battiato), e con loro incidenti, delusioni, vigliaccate.

A questo punto vien voglia di fermarsi ma a pugni chiusi  è necessario proseguire altrimenti la trama zoppica e non evolve. Pensate un po’ a cosa non sarebbe successo se Madame Bovary non avesse comperato ogni inutilità dall’avido Monsieur Lhereux? e se nell’Idiota di Fëdor Dostoevskij,  il Principe Lev Nikolàevič Myškin non avesse incontrato Nastàs’ja Filìppovna .

Lo so che al primo problema vien voglia di gettare via quella relazione così fragile fatta di parole virtuali; lasciare la pagina incompiuta e gettare il foglio quasi bianco appallottolato nel cestino dell’immondizia, dimenticando di averlo mai scritto.

Ma invece è a quel punto che occorre andare avanti e considerare gli intoppi, i traumi: la  trama della storia.

Mano a mano che ci si inoltra nella relazione che si sta creando conosciamo meglio il personaggio che noi siamo e l’altro davanti a noi mentre tutti i nodi e i fili della trama cominceranno a intrecciarsi e la storia inizierà ad acquistare un senso. E’ la trama che rivela le intenzioni umane; è lei che mostra come tutto sia connesso ed abbia un senso.

Ci sarà, poi, un momento in cui, come in ogni storia che si rispetti, il nostro racconto avrà un epilogo bianco su sfondo nero come in un film degli anni 30.

No, non il finale che immaginate o il finale che già avevate in mente al primo ciao, ma un finale vero quello da cui non si torna indietro.

A questo punto inizia una nuova storia con un incipit, una trama e un finale, ciò che era virtuale ora diventa reale.

 L’equilibrismo di questo primo appuntamento è proprio il ricordarsi che si sta  andando a chiudere una storia, con  tutto il suo bagaglio di malinconia e fazzoletti bianchi che si agitano al vento, e non a iniziarla.

Un vero finale è una incognita, non è necessario fantasticarci su: immaginare e idealizzare, proiettandoci dove ancora non siamo.

La storia di noi e dell’altro che abbiamo disegnato con il contatto su Tinder dovrà assomigliare a quei mandala che i monaci tibetani disegnano con la sabbia; un soffio e tutto si distrugge senza lacrime o tragedie per poi ricominciare a disegnare un nuovo mandala.

Artwork Marco Bruschi FABRIEK STUDIO

Psiche in viaggio

La psicoterapia, la psicologia, la psicoanalisi odorano di malattia, di disagio di attacchi di panico o di depressione. Non a caso, almeno in Italia l’Ordine degli Psicologi è inquadrato nel Ministero della Salute.

Ma è veramente così? Queste discipline curano chi è malato e lo aiutano ad inserirsi meglio nella società? Ma se la società è malata perché l’individuo dovrebbe ritrovare la salute per reinserirsi in essa?

Beh si, direi che ci sarebbe da grattarsi il capo, un poco perplessi.

Purtroppo non ho strumenti per rispondere a questa domanda e  quando non capisco mi affido ai poeti.  In questo caso cito Montale:

“Non domandarci la formula che mondo possa aprirti.”

I poeti, non ci forniscono mai risposte ma ci aiutano a pensare. Quindi riflettiamo e proseguiamo. Volevo, infatti,  parlavi della psicoanalisi itinerante e della sua utilità in viaggio. Nel mio lavoro con gli italiani nel mondo, molti “vagabondi” si sono rivolti a me attratti dalla possibilità di poter fare una terapia on line senza interrompere l’analisi durante i loro spostamenti. Tutto è andato sempre per il meglio; qualche volta abbiamo parlato in un Van nel deserto, qualche altra in una piazza newyorkese con una fontana e un grattacielo alle spalle. A volte abbiamo dovuto rimandare, in qualche ostello non c’era il wifi, oppure in qualche località in Nepal non c’era campo. Ma voi vi chiederete: perché mai qualcuno che compie una impresa così ambita da tutti dovrebbe rivolgersi ad una psicologa? Il viaggio è libertà e gioia perché mai un viaggiatore  dovrebbe aver bisogno di aiuto?

Embè vi svelo un segreto; viaggiare allarga i confini  ma è una delle esperienze più dolorose che esistano.

Intanto, se viaggiamo col cuore e con piedi e non su pullman con l’aria condizionata, entriamo in contatto con la povertà e questo ci fa avvertire l’ingiustizia del mondo: ed è dolore. Inoltre, lungo la strada incontriamo altri viandanti come noi con cui facciamo un pezzo di strada insieme. Un pezzo di cammino solo, però, perché in un certo giorno, davanti ad un rosso tramonto, i nostri sentieri si divideranno e dovremo separarci. Questi incontri sebbene forieri di nuove emozioni danno luogo ad uno dei dolori più intensi per l’essere umano: la separazione . Chi ha fatto un percorso insieme a noi se ne va e un pezzo di strada è finito e nonostante i whats app e  i Facebook con buona probabilità non lo rivedremo mai più. Questi incontri, ovviamente, non sono solo lacerazione, a saperli cogliere sono anche segni sul nostro cammino, ma sopraffatti dal dolore in genere non li vediamo.

Barbara Hannah nel suo libro Vita e Opere di C.G. Jung scrive:

Jung si trovava sulla riva di un fiume, lo sguardo volto alle montagne che si levavano per quasi duemila metri al di sopra dell’altopiano. E all’improvviso, un vecchio indiano si era letteralmente materializzato in assoluto silenzio accanto a lui, chiedendogli con voce profonda e vibrante di emozione: “ Non credi che tutta la vita provenga dalla montagna?” Jung rispose: “E’ evidente a chiunque che tu dici la verità.”

Fu uno di quei brevissimi incontri di Jung con persone che sembravano sfiorarne la vita, appena il tempo di trasmettergli un messaggio. In più, direi che chi viaggia è in genere un’anima inquieta che sta cercando qualcosa e non sa cosa sta cercando, ma come l’ubriaco che cerca la chiave sotto al lampione sbaglia il posto della ricerca. E’ nel buio che deve cercare: negli angoli più scuri della sua interiorità. Ed è in questo senso che la psicoanalisi senza essere “cura” può aiutare molto. Essa ci aiuta nel far risuonare dentro ciò che vediamo con gli occhi e a riconoscerci abitanti non solo del nostro paesello ma abitanti del mondo. I bimbi che giocano con una palla di stracci siamo noi, che nell’ingenuità dell’infanzia sapevamo giocare con ogni oggetto che trovavamo. Ma come riconoscerlo se la nostra infanzia l’abbiamo dimenticata?

I popoli che guardano al sole come al loro unico dio assomigliano a noi quando scrutiamo il cielo cercando delle risposte? Ma come vedere il cielo quando siamo illuminati da luci artificiali? Il corpo che brucia su una pira nelle acque del Gange ci fa comprendere un altro modo di celebrare la morte, laddove nella moltitudine tu te ne vai perché altri tornino a vivere. Ma come fare a percepirlo quando la morte è un tabù segregato in un ospedale. Certi paesaggi in Argentina e in Sudafrica ricordano il mondo prima che gli uomini vi costruissero grattacieli e superstrade. Ma come vederli se abbiamo occhi solo per il nostro comfort?

In un mio trekking  in Patagonia,  durante un cammino scosceso e difficile, stanca, affamata e con un paio di scarpe inadatte mi sono voltata indietro e ogni disagio è sparito; ero in un paesaggio precedente alla venuta dell’uomo, era il mondo così come è sempre stato nella quiete dell’eterno inizio.

Là in quelle distese primordiali  mi sono sentita radicata, non alla mia città, alla mia lingua e al mio cibo, ma al mondo.

Questo che descrivo è stato un’attimo, un barlume di luce mentre spesso, invece, il nostro punto di vista ci inganna, guardiamo con occhi disattenti e usiamo la testa anziché il cuore.

Sempre Barbara Hannah scrive di un dialogo che  Jung tenne con il capo dei Taos Pueblos:

Il capo, che si chiamava Ochwiay Biano, che significa “Lago Montano”, aveva un atteggiamento fortemente critico nei confronti dei Bianchi, e Jung restò sbalordito udendolo affermare che gli indiani ritengono gli americani pazzi perché pensano nelle loro teste. Jung chiese dove avesse sede il pensiero degli indiani, e la risposta fu: “Nel cuore”

E’ il cuore e non la testa che ci aiuta a riportare dentro ciò che vediamo fuori, che ci aiuta a sopportare la separazione e a dargli un senso. E’ sempre lui  che ci fa a scoprire che la nostra inquietudine è un sentimento comune a tutti gli esseri umani. Quando in una bar dalle zozze tovaglie di plastica, ci sentiamo soli e persi e con lo sguardo vuoto guardiamo ad un vecchio poster della Coca Cola, è solo il senso del viaggio che ci fa rialzare da quella sedia e riprendere il cammino. 

E il senso lo troviamo nel cuore e in tutti quei frammenti di vita che hanno costruito il nostro viaggio. Consapevoli che  il viaggio fuori non è l’unico viaggio, c’è un altro viaggio che lo deve affiancare ed è il viaggio interiore.

Expat: scegliere

Se faccio così avrò degli svantaggi  e anche dei vantaggi, se faccio nell’altro modo avrò dei vantaggi  e comunque anche degli svantaggi. Ma cosa devo fare?

Se accetto quel lavoro,  avrò degli avanzamenti di carriera, ma sarò sempre impegnato e non potrò dedicarmi alla famiglia. Se non accetto, però, questa è una opportunità che non mi si presenterà mai più.

Se vado in Giappone imparerò il giapponese ma sarà solo lavoro e niente vita privata ma se torno in Australia forse non troverò  più il lavoro che fa per me. E’ proprio l’expat che spesso si perde in questo labirinto. Ma perché proprio lui?   A lui che ha già scelto con determinazione? A casa era in grado di scegliere, perché ora no?

Intanto, c’è da dire dire che la scelta sembra porsi tra due alternative, ma a ben vedere le opzioni in gioco sono sempre tre; in ogni caso è sempre possibile non scegliere. Si narra che quando un nomade arabo esitava a prendere una decisione, sceglieva tre frecce: su una scriveva:  “Il mio signore mi ordina” e sull’altra “Il mio signore mi vieta”. La terza non aveva alcuna scritta. Egli riponeva le frecce nella faretra, poi ne prendeva una a caso e seguiva i suoi consigli.

Se gli capitava la freccia su cui non c’era scritto niente, procrastinava.

Il non scegliere in realtà non è una alternativa ma permette di indugiare in un tempo sospeso dove è possibile procrastinare la scelta all’infinito.

Amaterasu dea della luce si rivela....
Fotografia scattata dalla Dottoressa durante un viaggio in Giappone.

E’ forse in questo spazio di attesa che si situa l’expat che ora non sa più scegliere?  Aspetta e riempe questo tempo di frasi del tipo: “Appena sono in Giappone.” se è in Australia, “Appena sono in Australia” se è in Giappone.

 Ma, procrastinare la scelta provoca una sorta di paralisi che è l’esatto contrario di ciò che si era cercato andando a vivere lontani da casa. Ed ecco che allora la scelta diventa un momento di dolore e di perdita di sé. Non si sa più chi si è e dove si sta andando.

L’oscillazione tra A e B si fa sempre più forte e le giornate sempre più piene di angoscia.

Ed è a questo punto che subentra la paralisi; le giornate scorrono tutte uguali e pare non esserci nessuna possibilità: il mondo si fa grigio.

Scegliere a questo punto diventa indispensabile ma A o B questo è il problema; amletico direi…

La causalità però non è una legge assoluta, bensì solo una tendenza o preferenza probabilistica. La causalità non tocca il cuore delle leggi naturali, è solo un modo di pensare che soddisfa la nostra comprensione mentale di una serie di eventi.

Il pensiero sincronico in Cina è il modo classico di pensare; ed è un pensare per campi più vicino alle leggi naturali. La domanda nel paese del Sol levante non è perché sia accaduto qualcosa o quale fattore abbia causato un certo effetto, ma quali eventi amano accadere insieme in modo significativo e nello stesso momento.

Fino al XIX secolo nelle scienze si pensava che solo cause fisiche potessero avere effetti fisici e che le cause psichiche fossero la causa di effetti psicologici. In seguito si ci è chiesti se esistessero interazioni tra queste due linee. Esiste qualcosa come una causa psichica di eventi fisici, e viceversa?

Il pensiero sincronico è un’articolazione del pensiero primitivo dove non vi è alcuna distinzione tra i fatti psicologici e quelli fisici.

Un po’ di anni fa mi trovavo tra i Dogon a Sanga un indovino mi disse che nel suo paese le persone afflitte o indecise sul da farsi  interrogavano Ambakene Teme l’indovino della volpe.

“E chi non ha dei dubbi?” Gli risposi. “ Dai, interroghiamo la volpe.”

Quella sera nella luce rossa del tramonto io e un certo numero di persone ci recammo alla divinazione sulla strada di Sinkarma. L’indovino davanti a noi camminava rapido. Ma ad un tratto, come se avesse individuato qualcosa,  si fermò di colpo. Recitò una cantilena e iniziò a disegnare uno spazio diviso in campi uguali, come il nostro gioco della campana. Finito il disegno Ambakene pose in ogni rettangolo: una conchiglia, un bastoncino e alcune pietre.

Mentre Ambakene versava sulla griglia un liquido biancastro, miglio e miele selvatico, questa illuminata dalla luce rosa albicocca del tramonto appariva simile ad un quadro di Mondrian.

Al giungere del buio ci allontanammo. La volpe sarebbe arrivata nella notte, avrebbe lasciato delle tracce con le zampe e domattina  l’indovino le avrebbe interpretate.  All’alba Ambakene  illuminò la sabbia con la poca luce di una torcia che aveva le pile quasi esaurite e lesse su quella che era diventata una pagina di sabbia le impronte della volpe.

Studiò a lungo ma la risposta fù secca: “ No.”

In quell’alba irreale accolsi quella risposta dando ad essa un significato metaforico, quel “No.” non era dettato dalla ragione ma sono sicura che quella risposta diede movimento ad una mia situazione di malessere e di immobilità.

Del resto una visione razionale del mondo è una visione parziale ed è piena della presunzione umana di conoscere tutto ciò che c’è da conoscere

 E’ dal disordine, dall’epifania, dall’incastro casuale e al contrario da decisioni di laboratorio o previsioni  di un algoritmo che nasce la possibilità di meravigliarsi positivamente della scelta che abbiamo compiuto.

L’impronta della volpe

Un consiglio di lettura della Dott. Daniela Brambilla, legato ad ogni articolo uno spunto per approffondire l’argomento trattato.

Expat: Perchè sono qui? Ovvero L’anima dei luoghi

«Un luogo non è mai solo quel luogo. Quel luogo siamo un pò noi. In qualche modo, senza saperlo ce lo portavamo dentro…e un giorno per caso ci siamo arrivati.»

(Antonio Tabucchi)

“Ma lo sa dottoressa che tutti gli americani possiedono un’ arma?”  mi dice Carlotta scuotendo la testa. “Qui in Texas  pensano di essere i migliori e non escono mai dal loro paese.” conclude arricciando il naso.

“ I Francesi mangiano rane, lumache e formaggi che puzzano.”mi dice Filippo apparentemente disgustato.

“Non si può star male in Australia.” dice Gabriele: “ Ti guardano dall’alto dei loro muscoli  e ti sorridono masticando un no Problem.”taglia l’aria con una mano e borbotta:  “Mi chiedo che cosa ci sto facendo qui?”

L’expat che per lavorare è emigrato in un altro paese porta con sé un vissuto di estraneità e di non appartenenza.

“Sono stato costretto.” Dice sempre Gabriele: “avevo uno stipendio da fame.”

“Costretto? Chissà se è vero? ” Rispondo io alquanto dubbiosa su questa fantomatica costrizione.

“Altri non emigrano.” Aggiungo fissando dall’altra parte dello schermo Gabriele che abbassa lo sguardo; pensieroso.

 Il cibo, il tempo e lo strano modo di adattarsi  alla vita sono elementi concreti di un paese; ma proviamo a vedere le cose sul piano simbolico.

Model Nel Cielo Splendevano Due Lune Ph. Marco Bruschi

Seguendo le orme di Jung e degli antichi greci, Hillman sostiene che i luoghi hanno un’anima e sono popolati da divinità, inoltre assorbono i pensieri e le tradizioni degli uomini che li abitano da secoli o da millenni.

Quindi, se i luoghi hanno un’anima anche l’attrazione che i paesi hanno su di noi può essere un movimento d’anima?

 Se quindi è vero che quel luogo esercitava su di noi un’attrazione inconscia può essere vero che lo star immersi in quel paese  ci spinge verso un lavoro interiore che può compiersi solo dopo aver vissuto in quel certo luogo; deserto, freddo e ventoso, caldo e ospitale ma comunque distante dalla nostra zona di confort?

Il fatto di essere arrivati in una terra ai margini del nulla può voler dire che si aveva il bisogno di fare decluttering? Forse le mille luci della città non permettevano di vedere l’essenziale?

Forse si è capitati in un mondo sorridente come quello australiano per fare i conti con la nostra pesantezza? Non ne veniamo forse da un paese che si sta accartocciando nelle sue leggi e che sembra non guardare più al futuro?

L’autarchia Texana non ci spinge forse a riflettere su cosa possiamo fare da soli e di quanto abbiamo bisogno dell’altro spingendoci verso l’ascolto dell’interconnessione tra noi esseri umani?

Qualsiasi luogo non è altro che una parte di noi con cui dobbiamo fare i conti;  essere in quel paese invece che altrove ha un suo significato; forse misterioso ma che vale la pena di trovare per fare si che quello che era un semplice moto di sopravvivenza si trasformi in un cammino di arricchimento personale.

Per fare questo occorre distogliere lo sguardo dall’esterno per soffermarci sull’interno, nell’osservazione di quale alchimia è stata provocato dall’incontro della nostra interiorità con quel paese.

Quando si era a casa si guardava oltre la siepe, ora che la siepe l’abbiamo saltata, occorre fermarsi, chiudere gli occhi abbassare le spalle e guardarsi dentro, dentro alle pieghe della nostra anima, laddove nulla accade per caso ma tutto ha un senso.

TABUCCHI _ FELTRINELLI

La Dott.ssa Daniela Brambilla ha citato Antonio Tabucchi, dal libro ‘Viaggi e altri Viaggi’ di cui consiglia la lettura.

Edizione Feltinelli 

La conquista di Marte

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Sailors fighting in the dance hall

Oh man! Look at those cavemen go

It’s the freakiest show

Take a look at the Lawman

Beating up the wrong guy

Oh man! Wonder if he’ll ever know

He’s in the best selling show

Is there life on Mars?

David Bowie Life on Mars

Lo scorso 18 febbraio la Nasa ha pubblicato le immagini delle manovre di atterraggio del Perseverance sulla superficie di Marte per iniziare la ricerca di tracce di vita sul pianeta.

Il Pianeta rosso, al momento, ospita due grossi rover, oltre i mille chili e con dimensioni di un grosso suv, entrambi della Nasa. Uno è lì da un decennio, Curiosity, e l’altro, Perseverance, è appena arrivato ed è il primo tassello, fondamentale, dell’operazione Mars Sample Return, che porterà pezzi di suolo marziano da analizzare nei laboratori terrestri.

La colonizzazione di Marte è una grossa sfida, manca: l’aria, l’acqua e il cibo, ma la hybris dell’uomo non si ferma davanti a nulla. Sulla terra ci stiamo stretti? Forza cerchiamo altri spazi. La volontà di conquista è forte e la si evince dalle storie che l’uomo racconta che  rivelano a volte inconsciamente a volte no; le nostre paure, i nostri sogni, il nostro eroismo ma anche la nostra arroganza.

Una a caso; nel 2014 il romanzo di Andy Weir L’uomo di Marte vede il protagonista, il botanico Mark Watney, riuscire dopo innumerevoli tentativi a coltivare patate nel terreno duro e rosso del Pianeta.

Insomma, vivere su Marte è ancora impossibile, ma la ricerca e le esplorazioni avanzano e il desiderio è tanto. La  scienza espressione della cultura umana che piega al suo volere la natura va avanti a colpi di machete e disbosca foreste per insediarvi orti, pozzi, capanne/ case esattamente come è sempre stato e pare che sempre sarà.

Ma vogliamo chiederci a livello simbolico cosa significhi in questo periodo il bisogno vero o indotto che sia di colonizzare Marte? Perché cerchiamo sempre nuove terre da colonizzare e non ci guardiamo dentro dove ci sarebbero, volendo, ben altre imprese da compiere? 

Nel Rinascimento alcuni individui di genio si dedicarono ad una esplorazione del mondo interiore  ardita e rivoluzionaria tanto quella che avveniva in quegli anni nel mondo esterno dei grandi navigatori.

Questi pensatori esaminando la vita interiore scoprirono isole, passaggi e canali, a volte continenti, tracciarono mappe, escogitarono metodi, ma anche allora le loro ricerche godettero di meno fama di quelle degli esploratori di nuove terre. Vuoi mettere Cristoforo Colombo che conquistò un continente con così tanti beni da trafugare che fermarsi a interpretare i sogni o guardare alla nostra anima?

Eppure quegli esploratori dell’interiorità ai nostri tempi potrebbero ridarci il senso di dove siamo, di dove siamo venuti, delle strade giuste da prendere se vogliamo raggiungere luoghi fertili e inesplorati. Non già  luoghi esterni ma territori  abbandonati dell’anima.

Fra questi esploratori il più grande maestro fu Marsilio Ficino, che si rivolse all’astrologia per cercarvi e trovarvi i simboli della vita interiore; dei suoi travagli e delle sue trasformazioni, dando forma ad un’arte dell’immaginazione, che egli riteneva la medicina appropriata per l’anima sofferente.

Ficino ci metteva in guardia dal Pianeta rosso;  le manifestazioni  del dio sono: collera, violenza, odio, aggressività di ogni genere, durezza ma anche eroismo.

Infatti;  Ficino sapeva bene che dopo aver affrontato tutto il potenziale negativo di un dio possiamo permetterci di accogliere tutto il potenziale dell’altro lato;  e constatare che spesso la sua irruenza si rivolge a scopi meno distruttivi ma più creativi.

Attualmente la guerra e la violenza sono ancora diffuse e perseguite con una arroganza da minacciare la nostra stessa esistenza e il nostro eroismo lascia alquanto a desiderare.

La collera e l’intolleranza la fanno da padrone, non solo nell’odio tra nazioni ma anche  nelle situazioni domestiche;  dove ogni giorno sposi, genitori, innamorati, amici e vicini impazziscono colpiti da improvvisi attacchi di collera, posseduti da Marte in maniera tale da essere trasformati in creature folli.

Se prima di conquistare Marte e piegarlo alla volontà di cultura riconoscessimo  la nostra aggressività, il nostro desiderio di predominio e la nostra arroganza faremmo inevitabilmente i conti con quel pianeta roccioso la cui superficie è stata modellata da vulcani, impatti di meteoriti e venti violentissimi, e gli potremmo attribuire un posto simbolico nel pantheon della nostra psiche traendo dal suo fuoco e dalla sua rabbia: fuochi creativi e rabbie costruttive.

Scrive Ficino:

“Marte è superiore di fortezza, perché egli fa gli huomini più forti. Venere doma Marte, imperò che quando Marte nella natività dello huomo signoreggia, dona magnanimità e iracundia, e se Venere proximamente vi si aggiunge, benché non impedisca la magnanimità da Marte concessa, nientedimeno raffrena el vitio della iracundia, ove pare che, facendo Marte più clemente, lo domi.”

Nella mitologia Marte e Venere sono amanti e insieme si uniscono e hanno una figlia: Armonia. Armonia sposò Cadmo e vissero insieme fino alla vecchiaia e si dice che  il loro fu l’unico matrimonio in cui furono invitati tutti gli dei, nessuno escluso.

Marte è forte e spacca la psiche permettendo a desideri, stati d’animo, sentimenti e pensieri di sostenere il conflitto.

Venere è la grande madre ereditata dalla tradizione neolitica; nuda e sontuosamente voluttuosa è la dea creatrice trasformata nel tempo nella più banale dea dell’amore.

Armonia, la figlia, non è una soporifera mescolanza tra i due ma somiglia piuttosto alla corda tesa di una lira; è la tensione fra i due poli prodotta dalla loro forza contrapposta, non dalla loro mescolanza

Riconoscendo, quindi, la nostra aggressività e tenendola in tensione con Amore potremmo   abbandonare la nostra hybris di conquistatori di mondi esteriori per rivolgerci all’interiorità e trovarvi lì:  Armonia.

Marte e Venere sono pianeti ma non sono solo fuori di noi ma anche dentro di noi; ciò che dobbiamo trovare non è una natura altra dall’umano , ma il tessuto fine di relazioni che ci lega all’ossigeno, all’acqua , ai pesci nell’acqua e persino ai pianeti nel cielo.

Pensare per opposizione tra natura e cultura è solo una delle molteplici possibilità di pensare all’ambiente.

Il totemismo e l’animismo, per esempio,  risultano più attenti alle relazioni e alle possibilità di vivere nella tensione tra due opposti.

In questi tempi di transizione sarebbe un errore madornale continuare a pensare nei termini di una rigida opposizione tra natura e cultura; una cultura trionfante  e una natura da conquistare e da domare. 

Siamo fatti di polvere di stelle  il piccolo è uguale al grande, i pianeti del cielo sono anche dentro di noi. Lo dicevano già i filosofi che precedevano i telescopi; non era necessario vederli i pianeti per sentirli risuonare del medesimo ritmo del nostro cuore, figurati se era necessario conquistarli.