Comunque per ritornare alla normalità bisogna essere stati normali

L’accelerazione del cambiamento è la cifra della nostra epoca.
Sui mezzi pubblici, al bar o in spiaggia si sente sempre qualcuno che scuotendo la testa e per niente entusiasta esclama: “E’ in atto una rivoluzione, cambierà tutto”
Il cambiamento attrae ma contemporaneamente respinge. Tutti ci auspichiamo di cambiare ed è spesso anche una richiesta che facciamo nel lavoro psicoanalitico: “Non mi vado bene come sono. Vorrei cambiare.”
In realtà, forse, non occorre agitarsi perché tanto i cambiamenti avvengono da soli.
Tutto ciò con cui veniamo a contatto è soggetto a mutamenti continui. Già nei secolo antichi si era consapevoli di ciò: Eraclito descrive il mondo come un flusso perenne in cui tutto scorre. Egli afferma che come le acque di un fiume: non ci si può mai bagnare due volte nella stessa acqua.
Nevrotico è, se proprio dobbiamo dirlo opporsi al cambiamento. E lì, bisogna dire, che noi essere umani per rimanere avvolti nella nostra zona di confort le studiamo tutte e, a volte, ci troviamo ormai vecchi aggrappati al fanciullo che eravamo.
Canta Battiato:


“Ma c’è voluto del talento per riuscire ad invecchiare
Senza diventare adulti.”


Cambiare, quindi, è necessario ma in questi ultimi anni non si è andati troppo veloci? Tutto ci appare vecchio ma il nuovo dov’è?
Eh si, ce ne accorgiamo tutti i giorni, tutto è diventato più vecchio, antico. Non lo avevamo visto prima ma le poltroncine del treno sono tutte corrose, il selciato in alcuni punti è divelto, nelle vetrine dei negozi gli oggetti sembrano appoggiati male e hanno colori spenti e polverosi, come se fossero stati tirati fuori dalla soffitta in attesa che arrivino le tute spaziali. Persino il sole sembra non essere più lo stesso; è più accecante, e illumina aggressivamente le cose ormai polverose.
Ci sarebbe da chiedersi se, forse, l’aver guardato la vita da uno schermo di computer luccicante di pixel ci fa vedere il reale più impolverato più scialbo e soggetto alla precarietà dell’esistente.
Fatto sta che ora che siamo tornati alla vita di prima e tutto ci appare come se fosse passato un tempo molto più lungo di quanto in realtà è stato.


Scrive Barrico:
Cinque anni in uno.
Come in un racconto di Philip K. Dick, s’è formata una crepa temporale e lì dentro abbiamo vissuto cinque anni in uno.

Dunque, vorrei avvertirvi, siamo nel 2025.
Eh si, è proprio così, siamo piombati nel 2025 con i mezzi che avevamo nel 2020. Mentre noi impastavamo con il lievito madre non ci accorgevamo di usare i device digitali molto di più di quanto li usassimo prima; abbiamo lavorato in smart working, fatto la spesa on line e siamo finiti a far lezioni di tedesco o di yoga su un’app.


Sempre Barrico scrive:
Sarò sintetico: siamo finiti, in un anno, nel 2025, e purtroppo l’abbiamo fatto in modo disordinato e caotico, lasciandoci dei pezzi indietro. Dunque c’è una specie di linea temporale da ricomporre, allineandola più presto possibile al 2025: chi ci riesce per primo, vince. Chi non vede il problema è destinato alla scomparsa. Chi lo vede e sa gestirlo erediterà la Terra.
Oddio, però non può andare tutto così veloce.
Forse anche se vedo il problema ho bisogno di narrarla questa nuova vita; di raccontarla alla luce dei nuovi valori acquisiti e dei vecchi pregiudizi persi.
Intanto incominciamo a dargli un nome a tutto quanto sta accadendo perché solo così è possibile pensarlo e eventualmente dirigerlo.
Quest’ultima rivoluzione dell’umanità si chiama: rivoluzione digitale.
Ci hanno preceduti molteplici rivoluzioni ma questa a differenza delle altre non ha un libro, non ha un progetto e si compie a partire da una serie di azioni pratiche che si susseguono.
Le nostre società sono attraversate da cambiamenti profondi indotti dalle innovazioni in campo scientifico verificatesi grazie alla rivoluzione tecnologica.


Materie come le nanotecnologie, le biotecnologie le neuro scienze, l’esplorazione dello spazio e lo studio delle particelle della materia stanno rapidamente spingendoci verso il futuro lasciando nella polvere tutto ciò che c’era prima.
Ma se questa rivoluzione digitale non poggia su nessuna teoria come farà l’umanità a stare al passo?
C’è chi incespica e cade, c’è chi affannosamente cerca di rimanere connesso non lasciando andare i vecchi pregiudizi, c’è chi già rimpiange il mondo di prima e si dibatte nel vecchiume, c’è chi non vede più un futuro.
L’innovazione, in realtà, non è un’attività neutra ma rispecchia i valori, le idee e le conoscenze di chi la dirige.
Un esempio tra i tanti che potrei fare: la disponibilità di un gran numero di dati dà alle macchine la possibilità di creare degli insiemi in cui suddividerli, dando vita a una differenziazione sempre più sofisticata.
In questo il machine Learning della macchina è simile all’apprendimento umano perchè crea delle distinzioni concettuali e le generalizza in base all’esperienza. Il processo di machine Learning dipende dai dati che gli vengono forniti. Se i dati sono viziati da pregiudizi umani la macchina non potrà che replicare quei modi di pensare nei suoi risultati.
Il caso più eclatante degli ultimi anni è stato quello del programma “Compass”; un’intelligenza artificiale usata dai giudici americani per valutare il rischio di recidiva dei condannati. Grazie a un’inchiesta giornalistica si è scoperto che il sistema perpetuava un pregiudizio nei confronti dei detenuti afroamericani, considerati ingiustamente più inclini alla recidiva. Questo effetto era causato dai dati con i quali era stato nutrito il suo machine Learning, dati che rispecchiavano l’idea di una maggiore pericolosità dei detenuti afroamericani, che costituiscono il 40% della popolazione carceraria nonostante rappresentino solo il 13% della popolazione statunitense totale.
Un tempo si considerava la terra al centro dell’universo ed era un pregiudizio dettato dall’arroganza dell’uomo.
Il passaggio dal paradigma tolemaico a quello copernicano ha prodotto un cambiamento epocale ma allora l’uomo procedeva con lentezza e riuscì a stare al passo con il cambiamento raccontando nuove storie che escludevano la terra dal centro dell’universo. Più grande ancora fu il cambiamento quando l’umanità si accorse che il sole non era al centro di nulla e l’universo era più grande di quanto l’uomo possa tuttora immaginare, ma anche allora la narrazione cambiò con lentezza scivolando lentamente nelle scuole, tra i filosofi, tra gli studiosi.
Ad oggi la spinta verso lo spazio è troppo forte, chi ci riflette non fa in tempo ad elaborare una teoria che questa è già sorpassata.
Vien voglia di dire: “Fermate il mondo voglio scendere.”
Cambiare, migliorare il mondo evolvere è ciò che ci auguriamo tutti ma tutto questo va pensato profondamente altrimenti invece che un’opera creativa degli uomini questa trasformazione sarà una storia che trasformerà gli umani in qualcosa che non è detto che essi vogliono diventare.
Abbiamo scoperto che i pianeti non girano attorno a noi, abbiamo capito che siamo un granello di polvere nello spazio e sono state tutte bastonate per il nostro “Io” perché non eravamo normali nemmeno prima.
E ora? Stiamo correndo il rischio di non apprendere dall’esperienza e sentirci nuovamente divinità al centro del mondo.
Una riflessione è necessaria.

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